Ero stato portato davanti al giudice e l’accusa era grave. Danneggiamento di parole. Aveva fatto una battuta di spirito, giocando sul doppio senso di una parola. Un reato oltre che grave, raro. Siamo quasi sempre soli e comunichiamo con gli altri per lo più per mezzo di icone di stato. Uno scrive una cosa e tu gli metti sotto un commento per immagini. Difficile danneggiare le parole, difficile dire qualcosa che non sia conforme. Le figurine sono tutte approvate dal sistema di verifica antirazzista di salute pubblica. Ero stato sfortunato, stavo mangiando una scatoletta di benessere su di una panchina ed un tizio gli si era seduto accanto. Non avevo resistito a dire qualcosa di spiritoso sulla composizione chimica degli ingredienti che ti danno la salute alimentare. No, non era stato quel tizio a denunciarmi, ma il fatto che avevo parlato ad alta voce. Come parli, la centrale registra tutto, anche se non hai con te il comunicatore a distanza e sebbene non averlo con sé sia una grave negligenza, sanzionata con tre mesi oscuramento dell’accesso ai contatti. Il fatto è che non c’è centimetro dello spazio urbano che non sia cablato e sotto sorveglianza elettronica. Vedono sempre dove sei, sentono tutto quello dici. Se danneggi le parole, usandole in modo improprio, commetti un grave crimine nei confronti della comunità. Le parole sono un bene pubblico di fondamentale importanza. Sono di tutti, quindi devi avere rispetto per esse, perché se le ammacchi non fai solo del male a te stesso, ma a tutti. Il sistema ha il dovere di proteggerne l’integrità, esattamente come fa per l’ambiente. Insomma far dire alle parole quello che non dicono, è un po’ come fumare in un locale chiuso, come buttare cartacce per terra, come mettere i residui umidi nel sacchetto nero, quello destinato alla plastica. La Dispensatrice Premurosa – così adesso si chiama il centro di orientamento collettivo – ha il dovere di intervenire. Se danneggi le parole, danneggi la sicurezza collettiva. Crei i presupposti perché significato di quello che ti viene detto possa avere anche un altro significato, e così il serpente del dubbio cominci a strisciare fra di noi e con esso corriamo il rischio che venga meno la fiducia nella certezza assoluta della verità di quello che è e che vogliamo che sia.
Il tutore comportamentale, si insomma quello che spiega al giudice le ragioni per cui sei stato indotto al crimine e con lui suggerisce come rimediare, aveva detto che si trattava di un fatto del tutto occasionale, che non c’erano stati altri precedenti e che quindi raccomandava un semplice ammonimento e sei mesi di corso di educazione al rispetto dell’ambiente culturale. Il giudice però era di parere contrario. Disse che era solo la prima volta che il danneggiamento delle parole era stato registrato perché espresso ad alta voce, ma chissà quante volte l’imputato aveva giocato in cuor suo con le parole, chissà quante volte le aveva associate in modo improprio e stravolte nel loro significato legale. Finché non fosse pronta, ben sperimentata e universalmente applicata la scatola nera che registra e decodifica tutti i movimenti cerebrali dell’individuo, non si poteva correre rischi. Meglio mille innocenti destrutturati e ristrutturati che un solo colpevole in libertà, perché il danno sociale che poteva fare una cellula impazzita che gioca con le parole è esattamente quella genera poi il cancro. La società, cioè noi tutti, abbiamo il dovere di proteggerci da una simile eventualità e, concludendo il suo discorso, sentenziò che fossi destrutturato e poi ristrutturato.
Mi portarono direttamente in ospedale, dove ti legano ad un lettino, ti addormentano e poi la macchina aspirante ti risucchia via completamente la memoria. Quando ti risvegli non è che sei esattamente una nuova persona, perché di rimettono nel cervello alcuni ricordi fondamentali di base e cioè il tuo nome, dove sei nato e da chi sei nato, ma poi su di essi innestano tutta una serie di fatti del tutto virtuali che sono però perfettamente in linea con con le aspettative del bene comune. Ti ricordi benissimo quando ragazzino hai denunciato il tuo compagno di banco perché razzista, oppure come la tal ragazza è stata felice di sapere che l’amavi anche se sotto le mutande nascondeva un gran bel pisello e le sue tette sembravano due palloncini di gomma. Era felice di sapere che quello che conta, per te come per tutte le persone giuste e aperte, era quello che uno si sente di essere e non certo quello che il caso gli riserva nella lotteria del nascere femmina o maschio. Insomma il meccanismo di ristrutturazione della persona immette nella tua memoria, come se fossero fatti realmente accaduti, fatti esemplari di carattere virtuale dei quali tu sei il protagonista, per cui vivi in prima persona i valori costituzionali che ci fanno cittadini coscienti e responsabili della società di cui siamo parte. Cominciamo a capire nel senso più profondo dell’idea che la società siamo noi, perché in definitiva siamo tutti la stessa persona. Dal punto di vista della pedagogia scientifica c’è del resto una distanza di efficacia enorme fra un meccanismo educativo al civismo di carattere astratto, ossia a parole, ed uno invece inserito nel vissuto stesso dell’educando, facendolo protagonista di buone azioni quali quelle che deve sempre compiere un buon cittadino.
Però da questa vicenda, la mia vita è davvero del tutto cambiata e sono diventato un’altra persona, ma non nel senso loro, quello insomma di quelli che la società siamo noi. Una curiosa fatalità. Ero stato medico educatore all’ospedale XII del Secondo Quartiere. Poi ho trovato un lavoro come avio-trasportatore che mi sembrava meno monotono e più ricco di spunti curiosi, girando tutte le città del pianeta e ricevendo favolosi bonus fine settimana, da spendere nei parchi divertimento dell’Impero del Bene. Negli anni passati come medico educatore all’ospedale ne avevo visto a decine di interventi di destrutturazione e ristrutturazione della personalità. Non ero io a condurli, io semplicemente come educatore verificavo dopo l’intervento il quoziente di rieducazione che dimostrava il reo/paziente. Il mio lavoro si limitava a fare delle domande e controllare se le risposte erano quelle giuste.
Così, quasi per istinto al sospetto, avevo pensato cosa mi sarebbe successo se mi avessero ristrutturato la memoria e allora, per non sapere né leggere né scrivere, una notte che ero di guardia, decisi di usare la macchina per fare un backup completo della mia memoria e metterla al sicuro in un microchip che mi sono poi impiantato sotto la pelle di un’ascella.
Per fatalità, la memoria che nel mio cervello avevo di quel microchip che mi ero impianto sotto pelle, mi fu reimmessa insieme ad altre di fatti reali che avevo vissuto, probabilmente perché confusa con quelle ritenute buone e utili come quelle relative al tempo in cui avevo lavorato in ospedale al servizio della Salute Pubblica. L’avranno confusa con un dei tanti interventi di risucchio e backup della memoria ai quali avevo assistito. Devo dire, però, che pur sapendo della sua esistenza, riattivarla mi costò un lungo periodo di penoso conflitto interiore. Percepivo che era una cosa contro la Legge ed ero convinto che agire scientemente contro la Legge fosse delle colpe di cui possiamo macchiarci di certo quella più grave, perché cadiamo spesso in tentazione a causa di momenti di tensione o di sventatezza, ad esempio tutti sappiamo che per la sicurezza di tutti in autostrada dobbiamo andare a 30 all’ora, ma volte siamo in ritardo e pestiamo sull’acceleratore, magari fino a 40 all’ora, ma questa è una colpa di secondo livello, perché non c’è l’intenzione a freddo di violare la Legge, ma solo una pulsione forte che ci spinge a fare qualcosa che sappiamo sbagliato, come però è anche sbagliato arrivare in ufficio in ritardo. E poi che si tratti di un’azione senza cattiva intenzione, ma solo dettata da un pulsione incontenibile di angoscia, lo sappiamo bene perché nessuno la può fare franca. I nostri Guardiani al Traffico Armonioso e Sicuro, vedono tutto dai loro monitor collegati ai radar e già dal giorno dopo la patente ti è sospesa per 6 mesi e così, per non arrivare in ritardo, ti tocca dormire 6 mesi in ufficio, nell’apposito stanzino spatentati, con quanto di pubblica ignominia la cosa comporta. No, io ero in una situazione totalmente diversa. Sapevo a freddo che stavo per infrangere la Legge e che nessuno avrebbe potuto mai venire a conoscenza della mia colpa, perché nessuno poteva sapere del microchip. Mi svegliavo di notte a volte gelato, a volte completamente sudato. Facevo sogni terribili. Immaginavo la giusta punizione per un colpa così tremenda; mi vedevo, come del resto era successo in alcuni, per fortuna circoscritti, casi di violazione scientifica della Legge, spogliato pubblicamente di tutti i diritti di cittadinanza, pubblicamente decittadinizzato e ridotto alla condizione odiosa di ‘essere incivile’. A quel punto non eri più nessuno, nessuno ti parlava più, non potevi più avere contatti né reali né virtuali con nessuno, non potevi più entrare in nessun negozio perché nessuno era più autorizzato a venderti qualcosa. I bambini quando ti vedevano si nascondevano frignando dietro i calzoni della madre, perché tutto il tuo corpo era stato tatuato con la scritta “incivile” e l’unico vestito che potevi indossare era una specie di tuta di plastica trasparente che rendeva a tutti visibile la marcatura. Però il nostro mondo è un mondo umano e solidale. Anche col più sordido dei delinquenti non vuole che questi patisca danni fisici e subisca una morte violenta per inedia. Ha un luogo apposito dove alimenta i reietti. Puoi entrare solo alla sera e ti danno una zuppa con il giusto mix di vitamine proteine carboidrati che terrà in vita a tempo indeterminato, come tutti. Lì poi potrai dormire su di un’amaca e all’alba verrai buttato fuori. E inizierai un’altra giornata terribile a vagare per le strade senza meta, incontrando solo il pubblico disprezzo.
Non so come, ma alla fine trovai la forza di attivare il microchip. Avevo sognato mia Madre. E da quel momento iniziò la straordinaria trasformazione di cui vi ho detto. C’erano due persone dentro di me. Una che diceva: “Come sei stato bravo a denunciare quel razzista del tu compagno di banco, quando eri bambino”, e un’altra che mi diceva. “No, questo fatto non è mai avvenuto è solo un sogno che ti hanno impiantato nella memoria, ma tu non hai denunciato nessuno”. E così, insieme a tanti altri eventi che avevo in memoria e che avevo cominciato a riconoscere non essere mai realmente avvenuti, mi cominciò a ronzare nella testa anche l’idea che un sistema tanto perfetto come il nostro non poteva poi essere tanto perfettamente giusto, se, per il bene della società, era poi costretto a ricorrere a forme di menzogna così evidenti e dunque a reggersi sull’inganno permanente e scientifico. Se la società siamo noi, è ragionevole che noi inganniamo scientemente noi stessi? Certo, ognuno di noi s’inganna spesso circa se stesso, immagina di sé virtù e capacità che non ha, trova con giochi di parole il modo di apparire a se stesso, se non del tutto innocente e in buona fede, in qualche modo ragionevolmente scusabile. Ma appunto, non scientemente, semplicemente per debolezza, soprattutto quella di non capire cosa muove le nostre paure, e, molte altre volte, si tratta di opportunismo inconscio. Ma mai scientemente. Come potremmo tollerare di essere così stupidi e inetti da non riuscire nemmeno a capire che stiamo mentendo a noi stessi? No, nessuno inganna scientemente se stesso, sebbene supponga di essere bravissimo nell’ingannare gli altri. Può esistere un uomo che può dire: sto mentendo, ma non so di star mentendo? Se non sai di star mentendo, non puoi neanche mentire. Dunque se la società siamo noi, non ha senso che essa si regga su di una grande menzogna anche se ideata a fin di bene. Forse la società non siamo noi, ma loro. Loro chi? Era un quesito che mi tormentava perché non riuscivo a trovare risposta, se, come ci avevano sempre detto e come tutti ben sapevano, quelli che dirigevano i vari uffici altro non erano che espressione diretta della nostra volontà, tutta gente scelta e incaricata da noi a fare quello che noi stessi avremmo fatto se avessimo dovuto concretamente, al loro posto, non decidere – che c’è da decidere in una società perfetta come la nostra? – ma semplicemente mettere in funzione il motore che dava energia a questo o a quell’organo in cui si articolava il nostro noi. In pratica erano semplicemente coloro che giravano la chiavetta che accendeva il motore che, insieme a tutti gli altri, faceva poi girare tutto. Ma le cose evidentemente non stavano così, anche se non avevo ancora capito come.
Mi fu d’aiuto, la secondo idea che mi frullava in testa insieme a quella se è bene che una società si regga scientificamente sulla menzogna. Era un’idea che riguardava il contenuto di bene che mi era stato immesso con i fatti di memoria virtuale. Mi ricordavo il racconto che mi avevano fatto a scuola, che veniva ripetuto anno dopo anno e nel quale si diceva che tanto tempo fa ci fu, in un luogo remoto e nel tempo della barbarie più nera, un popolo crudelissimo che decise di eliminare tutti quelli che al loro interno apparvero loro non troppo belli. Una discriminazione folle e insopportabile che tutta popolazione non solo accettò, ma si fece parte attiva denunciando questo o quello come troppo brutto per far parte del mondo dei belli. Dunque, mi dicevo, se denunciare i brutti ci veniva detto essere essere cosa brutta in sé, un’azione vile e inumana, che differenza c’è allora nel denunciare un brutto che più brutto non si può come lo è il razzista? Non è la stessa cosa di quel tempo di barbarie inumana? Quelli che riteniamo brutti, li denunciamo e la società, a nome di tutti, li fa sparire. Dunque siamo allo stesso punto come ai tempi della barbarie più nera. La società, cioè noi, ritiene giusto far sparire quelli che non ama e chiede a tutti di diventare complici di quell’azione ignobile che è la delazione e che lei stessa, con le sue educatrici tanto solerti, ci ha indicato essere cosa abominevole.
E poi un altro fatto che sapevo di memoria indotta mi tormentava. Erano gli anni che avevo vissuto insieme a Mark. Ci eravamo sposati e avevamo voluto, come è giusto, un figlio. Nella storia accadeva che dopo un po’ ci stufavano di cambiare pannolini e preparare biberon e, come prevedeva la legge, lo depositammo alla casa di recupero infantile, dove il personale altamente specializzato avrebbe provveduto alla sua crescita. Un bene per lui e un bene per noi. Del resto capivo benissimo che la storia non poteva che finire che in questo modo, perché altrimenti avrei potuto domandarmi, avendolo allevato io, dove adesso fosse. Quanto a Mark, la storia lo fa morire in un tragico incidente stradale, mentre andando in monopattino viene travolto da un pirata della strada. Secondo la storia, resto talmente straziato da questa notizia che dopo un lungo periodo di depressione ne esco a stento, ma non riesco più a concepire il contatto con un corpo maschile, perché mi sarebbe sembrato di profanare la memoria di quello che Mark ed io avevamo vissuto insieme. Ed è per questo che adesso devo fare di povertà virtù e dunque accontentarmi di fugaci contatti solo con corpi femminili.
Adesso capisco perché mi hanno impiantato questa assurda e completamente falsa vicenda nella memoria. Dal backup di memoria reale ho ricordato che a suo tempo, quando uscii maturo dal Centro Scolastico Universale, mi avevano fatto il test d’obbligo di orientamento sessuale e da esso ero risultato che ero un O.F.O. (Only Fyga Oriented). In linea di massima una cosa ritenuta simile ad un U.F.O., ovvero qualcosa di molto spiacevole che poteva essere accettata solo con riserva e che comunque prevedeva un stretto regime di sorveglianza culturale, per verificare che non sfociasse in qualche conclamato episodio di omofobia. La nostra infatti è una società armonica, equilibrata, uniformante. Vuole che tutto sia, se non eguale, almeno simile a tutto. Il suo ideale è tutto ciò che è metà e metà. Il mezzo uomo, il mezzo frocio, il mezzo bianco, il mezzo negro … ama tutto quello che è una cosa e che potrebbe essere anche il suo contrario, perché tutto è relativo, dunque anche quello che credi di essere e di volere.
Era chiaro che l’impianto di memoria che avevo ricevuto era finalizzato a farmi accettare il fatto che ero come tutti, ossia avevo pulsioni sessuali indistinte che adesso potevano andare in una direzione, domani in un’altra, senza per questo creare conflitto di sorta, essendo tutto ciò che è relativo al corpo e alle sue inclinazioni del tutto normale e buono.
Ecco adesso mi era chiaro perché avevano usato questo trucco di memoria virtuale per modificare non solo le mie idee, ma anche le mie inclinazioni pulsionali. Ci ritengono roba loro, materia loro da plasmare nella maniera che ritengono giusta.
E così la domanda tornava all’inizio, ossia chi sono loro, loro che dicono che siamo tutti noi ad essere la società che vogliono loro. Non riuscivo però a farmi un’idea precisa di chi fossero loro. Mi era chiaro che il giudice che mi aveva spedito alla ristrutturazione non era loro, ma solo una pedina che obbediva loro, credendo, come tutti, di fare quello che avevamo deciso noi. E come lui, tutti quelli mettevano in moto i tanti motori che ci davano l’energia per continuare a stare insieme. Poi una mattina, davanti allo specchio, ne vidi uno. Era appollaiato sulla mia spalla sinistra e assomigliava tanto a me, anche se era un me in miniatura, una specie di scimmietta con il volto che sembrava il mio. Mi diceva. “Se vuoi essere sopra tutti, devi volere che tutti siano eguali a tutti, ma se vuoi essere come tutti, devi crederti sotto tutti”. Capii che non c’era scampo, se vuoi che la società, cioè noi, sia eguale a quello che vuoi, devi porti sopra di essa; e se vuoi essere eguale a quello che gli altri vogliono devi farti inferiore a quello che gli altri vogliono, perché se tu avessi una volontà eguale alla loro, questa dovrebbe essere capace, come la loro, di dire loro come si fa ad essere eguale a ciò che tu credi gli altri debbano essere eguali. Ma allora ti dovresti ritenere dotato di una volontà inferiore alla loro, dunque inferiore e non eguale a loro. L’eguaglianza era dunque il delirio di onnipotenza che scimmietta sulla spalla di ognuno di noi coltiva nella brama di volere che il mondo sia infine quello che rispecchia il nostro volto nascosto.