ESSERE UMANI

La dimensione morale a cui aspira l’uomo contemporaneo (con questa espressione, prendiamo per buona la formula  aristotelica del “per lo più”, relativa alla descrizione di fatti empirici classificatori – i cigni sono per lo più bianchi, ma accade che ci sia anche qualche cigno nero), può essere ben riassunta con la frase di senso comune “essere umani”. L’obbligo morale che riconosciamo legarci agli altri è essere umani nei loro confronti e chiedere che loro lo siano con noi. Cosa voglia dire esattamente “essere umani” è, per forza di cose, lasciato al buon cuore di ciascuno. In linea di massima lo intendiamo con una disposizione d’animo per la quale ci immedesimiamo nella situazione di mancanza del nostro prossimo, la viviamo come nostra e dunque riteniamo assumere un atteggiamento di partecipe comprensione, di sostegno, di immedesimazione. In altre parole è una disposizione morale che riconosce nella simpatia il nostro dovere verso il altri. La simpatia è infatti quella disposizione sentimentale che ci permette – come dice esattamente il termine – di “sentire insieme”, ovvero di commuoverci di quello che capita agli altri, immaginando di potere essere al loro posto. In termini puramente empirici, si tratta sempre di un sentimento che neanche alla lontana ricalca quello reale che compatiamo e che, molto spesso, enfatizziamo perché ci dà l’illusione di essere buoni, di essere anime straordinarie. Per altro verso, bisogna notare che il sentire il dolore degli altri è la forma normale della simpatia sentimentale. A meno che non si tratti di qualcuno che amiamo con tutta l’anima (un figlio, uno di cui siamo innamorati …già la propria moglie dopo sei mesi di matrimonio è raro) accade esattamente il contrario quando il nostro prossimo ottiene un clamoroso successo, quando lo vediamo assolutamente felice. Per lo più il sentimento, in questo caso, è di antipatia, la sua felicità ci rode. Più ancora l’arbitrarietà irrazionale  di chi crede di essere buono perché aderisce sentimentalmente alle disgrazie altrui, la vediamo nella sua forma del tutto pazzesca e violenta, quando si gode del torero incornato e si esulta per il toro che l’ha scampata, quando si vuole lo sbarco del clandestino e si reclama la morte di chi non lo vuole. Dunque sappiamo che una morale che faccia del nostro arbitrario sentire, il principio fondamentale che deve guidare il nostro agire produrrebbe situazioni di follia persino comiche, tipo: “Morte a chi mangia il gatto” oppure “ Subito una tassa del 5 per mille da destinare al salvataggio dei cani vagabondi”.

La morale in che cosa consiste, se non può fare del sentimento la colonna vertebrale della sua verità? La morale consiste in quello che devo fare di me stesso in relazione al commercio che ho con gli altri, ossia col mondo.  Consiste dunque nel dare a ciascuno il suo. Il suo nucleo essenziale non è la partecipazione, semmai il contrario. La morale il più delle volte è la forza razionale che ci spinge a fare quello che mai sentimentalmente vorremmo fare.  Ad esempio rinunciare ad un vantaggio che facilmente potremmo ottenere barando. Perché al tavolo da gioco, dove sono in battaglia con altre persone che, pur nel piccolo di questa di questa situazione, devo considerare miei rivali, miei nemici, non posso, so, come tutti sanno, che non posso giocare con un mazzo che ho truccato. Perché se mi scoprono, mi sparano? Se la ragione fosse questa, potrei organizzare un tavolo dove ci mettiamo d’accordo in tre contro uno e poi voglio vedere se, quando questo se ne  dovesse accorgere, avrebbe poi la forza di sparare a tutti noi tre. Non l’avrebbe perché sarebbe morto, appena tirata fuori la pistola. Eppure sappiamo che se se ne accorgesse e per paura facesse finta di niente, la sua condotta sarebbe moralmente indecente. Sarebbe venuto meno al dovere verso se stesso di non tollerare di essere stato strumentalizzato da altri uomini, aver fatto finta che, per paura delle conseguenze, nulla sia accaduto e i patti rispettati.

La morale è fare dei patti e poi imporre il loro rispetto agli altri e, soprattutto, a se stessi. Non è adesione sentimentale, ma dovere, ovvero essere rigorosi con gli altri e con se stessi. Il riconoscimento dell’uomo da parte dell’uomo è in definitiva la morale. Nasce da un’intuizione razionale per cui so che quello che tu devi a me è quello che io devo a te e dunque è un patto implicito fondato sulla fiducia che il tuo agire sarà speculare al mio. Non c’è disprezzo più profondo se non per chi ha finto di aderire al patto e lo ha infranto segretamente. Il baro, appunto.

Quando dunque con tutta la loro potenza persuasiva, il mondo della comunicazione di massa riduce il nostro dovere verso noi stessi e verso gli altri a fatto ‘sentimentale’, alla partecipazione emotiva alle disgrazie altrui, che operazione di manipolazione di massa sta facendo? Quella classica che fa in ogni situazione di scambio sociale, ossia punta sulla gente di minor spessore intellettuale e di maggior disponibilità alla vigliaccheria dell’autoinganno, per generare una situazione generale nella quale può strumentalizzare fino in fondo la confusione dei cuori e imporre un ulteriore estensione del suo dominio. L’esempio più significativo in proposito sono le leggi che impongono di non odiare e, più ancora, l’aver creato un clima generale per cui se non aderisci al comune sentimento, ad esempio di tenerezza per i cani o i gatti, devi essere considerato come un essere moralmente nefasto. Siate umani  – vi  ripete alla nausea il comune sentire -, cioè il potere, e così perderete il senso di quello che sul serio voi dovete agli altri e quello che altri vi devono. Darete a Dio quello che è di Cesare e a Cesare quello che è di Dio.

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